Fonte: www.accademiadeglialterati.com. Passo in rassegna gli idoli dei miei ventiquattro – venticinque anni e a parte un paio di calciatori e un tennista inviso al mondo trovo incisi nella memoria solo nomi impolverati e senza gloria, insignificanti per tutti. L’elenco, una trentina scarsa di altri nomi, lascerà indifferenti 59.999.994 persone su sessanta milioni che siamo in Italia, ma non è una buona ragione per non infliggerlo ai sei restanti come una madeleine al profumo di fieno, erba falciata, sudore, terra, cuoio e letame. Sgrano così il mio rosario laico: Alcione, Ailanto, Grisov, Vienna da Procoio, Concours General, Namasal, Nitrocor, R.J.’s Fighter, Sweep Back, Ile de Paris, Falcon Cugar, Murasaky, Muldoon, Ale Rapini, Cardano, Cerro Artico, Wind From The West, Harold The Bay. Ripeto l’ultimo: Harold The Bay. Ve lo ripeto di nuovo: Harold The Bay. Che nel nome non ricordava una baia esotica, ma il color marrone bruno del suo mantello baio, bay in inglese. Harold The Bay era nato nel 1985 e sarebbe diventato un ricordo indelebile. Perché a me, un pomeriggio d’inverno, toccò raccontarne la giornata più incredibile. E sì che lui, il vecchio baio Harold, stava ormai per compiere i nove anni di età, veneranda per qualunque purosangue da corsa, ma non per i cavalli da cross-country, quelli del rosario di cui sopra, i miei eroi giovanili: i cavalli cioè dei percorsi di campagna, dove ve ne competevano persino di più anziani, e l’età era anzi un fattore per certi versi positivo: portava la calma, la governabilità, una muscolarità più compiuta, una innegabile forza nello stacco, e di converso, certo, meno brillantezza nei rari tratti di corsa in piano tra una siepe e l’altra, meno vitalità energica. Più saggezza, in una parola. Il 20 novembre del 1993, sabato, a Roma si gelava, questo me lo ricordo. In sala stampa alle Capannelle girava qualche bicchiere di plastica con un tè dentro, amaro, versato dal thermos di uno dei ragazzi che facevano la spola tra sala commissari e giornalisti intenti a scrivere resoconti per gli allora due (credeteci o no) giornali quotidiani ippici, cioè Trotto-Sportsman e Cavalli&Corse. Mi scottai la lingua. Io ero un aspirante telecronista con la ‘passionaccia’ per le corse a ostacoli, e in particolare, qui l’ho forse già raccontato, per questi cross country fuori pista, sequenze di ostacoli naturali da affrontare secondo il principio calcistico del “palla lunga e pedalare”. E i vecchi cavalli di cui sopra, che in corse piane non sarebbero arrivati non dico tra i piazzati, ma nemmeno penultimi, al cospetto probabilmente di nessun avversario per scarso che fosse, in campagna si trasformavano in eroi; erano lenti come tirannosauri dopo una peperonata, ma saltavano qualsiasi ostacolo e procedevano poi in avanti, speranzosi nella loro tignosa disperazione; e in sella a loro, “remavano” speranzosi i fantini (o meglio i gentleman-riders), così come le amazzoni. Rintoccava l’una e mezza: tra prefestivo, cecagna postprandiale, vento antartico e l’inefficace appeal della prima corsa, l’ippodromo delle Capannelle aveva la densità abitativa di una brughiera. Certo di farmi cosa gradita, e lo era, Valerio (Giubilo, uno dei miei maestri nel mestiere, che ringrazierò finché campo) mi spedì in cabina a fare la cronaca in diretta per le agenzie ippiche italiane di questa prima corsa, la quale, notai, aveva due cose belle e una brutta. Quelle belle erano: 1) il nome: Premio Coppa d’Oro; e 2) la cosiddetta “proposizione di corsa”: era un cross-country da oltre 5 milioni di lire al vincitore su un percorso stupendo e infinito da 5.000 metri, con ostacoli naturali come il laghetto (pieno d’acqua, evidentemente semighiacciata), la catasta di tronchi e la macèra, gabbia di staccionate e terrapieno, doppio travone e liverpool, bandiere da aggirare in sequenza, sieponi e fossato, insomma, un lirico, elegante percorso da stampa inglese del tardo Settecento. Quella brutta era che la bellezza della “proposizione” aveva sedotto solo me; presso gli allenatori dei cavalli invece aveva riscosso scarso entusiasmo. C’era purtroppo la miseria di quattro cavalli al via, quattro puntini destinati a rincorrersi, disseminati nell’immensità verde della pista interna delle Capannelle. Non molto di esaltante per me da seguire e raccontare in diretta, la cuffia microfonata già sistemata in testa. Se non altro, erano facili da riconoscere anche senza binocolo: soprattutto il cavallo che a detta di tutti “non poteva perdere”, cioè Sober Mind, di proprietà della Scuola di Cavalleria dell’Esercito e quindi montato da un ufficiale in divisa con stellette e gradi. Orbene, a corsa regolare, Sober Mind, soggetto di classe limpidissima nella specialità, non avrebbe potuto che imporsi di prepotenza ai suoi due veri avversari, peraltro entrambi capaci, se in giornata di vena, di non subire dal “militare” un distacco troppo umiliante. Uno era il coriaceo Nitrocor, otto anni, allevato a suo tempo dalla Razza Montalbano e per questo (il titolare era un industriale farmaceutico) battezzato col nome di una medicina, in questo caso un cerotto – ma non ridete: il fuoriclasse Miocamen, suo compagno di paddock da puledro, aveva appena vinto il Gran Premio di Merano ed avrebbe chiuso poi la carriera con un totale vinto di oltre un miliardo di lire; per un antibiotico, non c’è male. Nitrocor era uno specialista di queste prove, ed io lo amavo: mi aveva fatto ricco a Merano due mesi prima dominando uno dei cross più affollati che io abbia mai visto, contro ben quindici avversari, a 12 contro 1. L’altro era R.J.’s Fighter, nome da fiero combattente e capricci da mente strampalata, per la giubba arancio e verde della Scuderia Mercurio; aveva già vinto a Torino in primavera e a Merano d’estate e nel campo così stringato era da tenere d’occhio: di gamba, ne aveva. Il quarto era – come dire? Il quarto era Harold The Bay, che era arrivato a 8 anni “maiden” (“vergine”), ossia senza avere vinto una corsa che fosse una in tutta la vita, in piano o in ostacoli che fosse. Osservandone la “carta” delle prestazioni sul giornale ippico, una “carta” inguardabile, rivelava una particolarità credo unica nel panorama ippico nazionale: il vecchio baio risultava essere stato allevato, ed essere al momento dei fatti allenato, di proprietà, e persino montato in corsa, dalla stessa singola persona, Stefano Simoncini, un amatore che lo aveva praticamente visto nascere dalla madre Herbie, figlia abbastanza degenere del dormelliano Toulouse Lautrec; non aveva forma pubblica, non scendendo in pista dal 20 di marzo di quello stesso 1993, cioè esattamente da otto mesi, quando a Sober Mind erano bastati gli ultimi 600 metri di 3.000 per disperderlo per la pista del Casalone di Grosseto, lasciandolo sul posto al momento di lanciare la volata. Era stato fortunatissimo, stavolta: nelle corse a ostacoli il premio al traguardo spettava ai primi cinque arrivati, e a correre erano solo in quattro; bastava che Harold terminasse il percorso per assicurarsi uno dei più ricchi “gettoni” della ormai datata, sebbene ingloriosa, carriera. I quattro dell’Ave Maria si presentarono nella zona della partenza; Sober Mind era a ½ sulle lavagne degli allibratori, Nitrocor attorno al 2 contro 1, R.J.’s Fighter a 3, Harold The Bay praticamente a quota a scelta del giocatore, anche sopra il 10 contro 1. Giù la bandiera, e via lungo il percorso. Con cinquemila metri da fare e almeno venti ostacoli come quelli, non era tempo di cariche alla garibaldina; Sober Mind andò in testa imponendo piuttosto un’andatura da caccia alla volpe; Nitrocor e R.J.’s Figher si adeguarono a ridosso, mentre Harold, un paracarro, era già staccato indietro dopo mezzo minuto di gara, giudizioso e accorto nel suo geniale progetto di mera sopravvivenza per agguantare il quarto premio. Il tempo di controllare il ticket di scommessa per i pochi giocatori presenti all’ippodromo, ticket sui quali nel 95% dei casi era stampigliato il numero 4 di Sober Mind giocato come vincente, e il cavallo militare aveva già fatto il suo ingresso da leader nell’insidiosa “gabbia di staccionate” con un salto che trovai perfetto, un arco di cerchio amplissimo e sicuro; il medesimo cavallo colpì tuttavia in pieno con gli anteriori la staccionata d’uscita, rovinando nell’erba gelida lui, il valoroso ufficiale in divisa che lo montava, e metaforicamente tutti i giocatori delle Capannelle, che salutarono il gesto tecnico con una ben intonata liturgia di bestemmie. Restava a questo punto da dirimere il match tra Nitrocor e R. J.’s Fighter, mentre Harold The Bay perdeva ulteriore terreno; ma per lui, ora che era caduto Sober Mind, si erano schiuse le porte di un risultato sensazionale: il terzo posto; c’era solo da restare in piedi ancora per un po’. Dopo circa due chilometri di gara, e senza una ragione apparente, Nitrocor, pur montato da un fantino di prim’ordine nella specialità come Filippo Grasso Caprioli, precipitò a sua volta in terra dopo un ostacolo. Io, in una cronaca diretta che si faceva via via più incerta, tentavo invano di giustificare il deprimente spettacolo; qualcosa in quel microfono dovevo pur blaterare, ma mi ero già giocato il valore storico dei cross, quello estetico e quello tecnico. C’era poco altro da dire: erano rimasti in corsa in due, oltretutto separati da un fuso orario: R.J.’s Fighter, montato da Giorgio Guglielmi, e il lontanissimo, lentissimo Harold The Bay. Al secondo passaggio alla gabbia di staccionate, quando mancavano ancora due chilometri al traguardo finale, avvenne ciò che a Stephen King non sarebbe venuto in mente di far succedere. R.J.’s Fighter arrivò davanti al primo sbarramento orizzontale, sembrò soppesarlo, e si piantò lì dinnanzi rifiutandosi di saltarlo. Guglielmi, rimasto seduto in sella alla bell’e meglio, non sembrava sapere bene che cosa fare: aveva tuttavia un vantaggio tale nei confronti dell’altro superstite che poté ricondurre indietro al passo, cosa che non avevo mai visto in un ippodromo, la sua stizzosa cavalcatura. La gente osservava negli schermi; io non ero preparato alla bislacca evenienza ed ero nel pallone più totale. Ripercorsi venti metri all’indietro accarezzando il cavallo pazzoide, Guglielmi scatenò di nuovo il Fighter contro la staccionata d’invito con l’impeto eroico dei cavalieri di Izbuchenskij, subendo il secondo, netto rifiuto dal crudele quadrupede, che s’impuntò alla base dell’ostacolo rischiando nuovamente di disarcionare e trasmettere oltre la staccionata il malcapitato gentleman. Nel frattempo, pur procedendo ad andatura da corteo di protesta, Harold The Bay era ormai giunto in vista del battistrada. A quel punto, Guglielmi ebbe un’idea, debbo dire straordinaria: l’idea, inedita in un ippodromo italiano dai tempi credo di Catullo, fu quella di aspettare l’avversario; la compagnia di Harold The Bay avrebbe convinto il bizzoso R.J.’s Fighter a saltare l’ostacolo, sebbene da inseguitore, o forse proprio per questo; e poi sarebbe stato un gioco da ragazzi seminare nuovamente il lentissimo e demotivato rivale (ormai, incredibile a dirsi, pronto a prendersi il secondo premio) ed involarsi vincitori della Coppa d’Oro. Dondolando, Harold The Bay pervenne in zona. Il Fighter, che era stato per la seconda volta ricondotto indietro, attese che l’antico baio fosse passato – ci volle tempo – e che avesse abbordato la staccionata, saltata “abbondante” mentre Simoncini si volgeva a controllare di non avere avuto le traveggole e che ci fossero realmente un cavallo e un cavaliere fermi in mezzo alla pista che lo guardavano transitare; a quel punto, il fulmineo gesto di Guglielmi sulla rèdine sobillò R.J.’s Fighter all’inseguimento, con un risultato positivo, cioè che il cavallo non rifiutò il salto, e uno negativo, cioè che il cavallo s’inflisse una duplice tibiata contro la staccionata d’invito, smazzando il fantino per le terre e crollandovi a sua volta. Harold The Bay era rimasto solo e si allontanava. E mancavano due chilometri all’arrivo. Io non ricordo di avere mai più nella vita avuto bisogno di parole come in quei minuti interminabili, in cui nel silenzio spettrale e nella brinata della piana erbosa il colosso scuro fasciato su tutte e quattro le zampe, lento come un bradipo tridattilo ma sereno nel suo gesto atletico ottocentesco, abbordava gli ostacoli e graziosamente li superava. Ma tanto era il tempo che passava tra l’uno e l’altro, che ricordo distintamente dalla sala stampa, còlto nonostante la cuffia, il risuonare di un irrispettoso “daje, che pàrteno quelli d’aa corsa dopo”. In qualche modo, nel blando tifo degli spettatori divertiti, Harold superò uno dopo l’altro tutti gli ostacoli residui, varcando il traguardo in beata solitudine, al passo. Mi precipitai dalle scale della sala stampa per poter vedere la scena del tondino del dissellaggio, quando Simoncini, smontando di sella da quello che un tempo era stato il suo puledrino, non stava nella pelle dall’emozione. Mi danno l’anima di non aver scattato una fotografia: la felicità autentica è così rara che merita di essere eternata, avendone la possibilità. L’impresa qui descritta, in occasione della peggiore telecronaca della mia vicenda di giornalista ippico, restò la sola della carriera di Harold The Bay, alla cui fine mancavano ancora 4 corse. Mi ricordo perfettamente l’ultima: fu a Grosseto, a marzo del 1994, sempre in cross, sempre nel freddo, e sempre contro Nitrocor, il quale lasciò senza sforzo Harold The Bay ad un distacco che nel mondo del galoppo si registra di rado: “lontano”, dicono i resoconti, cioè un numero di lunghezze incalcolabile a occhio. Alla fine, il bilancio del figlio di Herbie dice 23 tentativi e una sola vittoria. Quella. La vittoria che rammenta anche a me, ogni volta che ci penso e ancora adesso dopo oltre vent’anni, che ad andare del proprio passo nella vita qualcosa si raccoglie comunque, anche se non si è nati per essere dei grandi vincitori e persino se si hanno quattro zampe, un musone lunghissimo e lo sguardo perso e buono che ricordo in Harold The Bay, e identico nel suo cavaliere che scendeva di sella, un pomeriggio freddissimo di tanto tempo fa.